Gli studenti europei non credono più nella scuola come ascensore sociale

Una serie di dati recenti evidenzia la difficoltà del sistema di educazione

Che aria tira fra i giovani studenti europei? Gli interrogativi – qui di seguito – nascono dall’incontro diretto di molti docenti, provenienti da tutta Italia, i quali fanno capo al gruppo di ricerca per le pratiche dialogiche e per le politiche scolastiche “Amica Sofia” (con coordinatori dell’Università di Perugia, dell’Università Lumsa di Roma e dell’Istituto universitario don Giorgio Pratesi), riuniti a Perugia, insieme a Eraldo Affinati e Massimo Iiritano, per il premio scolastico dedicato al grande scrittore, maestro e pedagogista Mario Lodi. Quali domande? In primis questa: lo studio è ancora sentito come un diritto fondamentale e come un prezioso volano di crescita individuale e collettivo?

Facciamo insieme un piccolo esperimento. Chiedendo all’intelligenza artificiale – come suggerito da Alessandro Rosina professore di Demografia e Statistica sociale nella Facoltà di Economia dell’Università Cattolica di Milano – su quali ambiti le nuove generazioni possono attendersi risultati positivi per il futuro, è venuto fuori questo elenco: educazione personalizzata, accesso all’istruzione per le aree più svantaggiate, migliore orientamento professionale, assistenza nel passaggio scuola-lavoro, innovazione e volontà di imprenditorialità. Come si può notare, attraverso ChatGPT (il noto trasformatore generativo pre-addestrato), sulla linea di quanto detto dal World Economic Forum di Davos (all’inizio di questo anno), emerge che le speranze per il futuro più prossimo dei nostri ragazzi riguardano il settore dell’educazione, dell’istruzione e della formazione.

Anche l’intelligenza artificiale “sa” (d’altra parte sintetizza l’informazione disponibile in rete) quanto fondamentale è (e sarà) il diritto allo studio. Continuiamo il piccolo esperimento, incrociando questi fattori di possibile crescita con le eventuali criticità. Da queste nuove domande poste a ChatGPT si apprende che i più giovani hanno timore, se non addirittura patologica ansia, di non trovare un lavoro adeguato o di andare incontro a lunghi periodi di inoccupazione, nonostante un elevato grado di istruzione. Il timore coinvolgerebbe perfino i ragazzi che hanno intrapreso un percorso di formazione post-laurea.

Queste domande e risposte, sia pur sommarie, affidate all’intelligenza artificiale, hanno trovato una concreta discussione nella riunione dei ministri dell’Istruzione del G7 svoltasi a Trieste. Il dato principale (riguardante tutta Europa) è questo: i giovanissimi – nei diversi rapporti presentati – a fronte di un’istruzione di alto livello, sono svuotati dalle disillusioni verso il futuro; hanno perfino la sensazione di sentirsi sottovalutati, se non addirittura sfruttati. Si sentono demotivati i giovani spagnoli, ungheresi, tedeschi e non va certo meglio per i giovani francesi, i quali, fino a poco tempo fa, mettevano a ferro e fuoco Parigi, per manifestare il loro disagio, il loro malessere, la loro sensazione di avere un futuro rosicato nei diritti (dall’istruzione fino all’età della pensione).

Al momento sono decisamente più incoraggianti i dati riguardanti i giovani italiani (studiati dagli Invalsi, da Eurostat, ma anche da “Il mondo in classe”, dossier di Save the Children), tuttavia il tasso di dispersione scolastica resta elevato rispetto all’obiettivo che l’Europa si è data per il 2030, cioè ridurla del 9%. E allora? Come mai si leggono analisi decisamente discordanti, nonostante gli autorevoli pareri di chi se ne occupa? Si tratta di un problema di metodo: le analisi devono essere multifattoriali e comparative. E allora è utile fare un ragionamento sulla fascia d’età 15-29, chiedendosi innanzitutto: chi è che ancora, in Europa, abbandona la scuola? Si sente, ad oggi, forte l’esigenza del diritto allo studio e la voglia di un’adeguata crescita nell’istruzione superiore? Le matricole europee, in ingresso in università, percepiscono il loro percorso come una preziosa porta per accedere all’ascensore sociale?

Cos’è cambiato rispetto a quel prezioso decennio (2010-2020), quando la Commissione Europea, con concretezza, inserì l’obiettivo di riduzione dell’abbandono scolastico nella Strategia Europea 2020, affiancando tale obiettivo a un maggiore potenziamento degli stage (remunerati) e dell’orientamento specializzato? In quel momento, come si sa, si fecero davvero notevoli passi in avanti, riducendo la media europea di abbandono degli studi a 1 giovane su 7. Poi c’è stato il fisiologico rallentamento derivato dalla pandemia, a cui son seguiti i fondi del Pnrr. E oggi? Come mai i dati di gran parte dell’Europa (nell’ordine Malta, Ungheria, Romania, Spagna, Polonia, Grecia, Italia e Germania) sono ancora così intrisi di dispersione scolastica e di alti livelli del controverso fenomeno “neet”?

I dati qui – è vero – sono notevolmente discordanti a seconda delle rilevazioni. Ascoltando (verbo prezioso e desueto) i giovani le giovani matricole, i dottorandi accanto alle testimonianze degli studenti Erasmus, provenienti da tutta Europa, emerge forte una sensazione: sconforto, aspettative ridotte, ansia per il domani. Gli insegnanti (soprattutto quelli dell’istruzione secondaria e universitaria) confermano questo trend. Probabilmente il discorso, qui, potrà apparire meno tecnico, ma come ci si può abituare al fatto che un buon numero di ventenni non creda alla parola “sogno”? Come si può far finta di niente dinanzi al fatto che il tempo futuro è diventato dimora di inquietudini e non tempo di attese?

Tornano forti alla mente le parole di papa Francesco: «Non lasciatevi rubare la speranza». E, soprattutto, è opportuno ricordare (a noi stessi, come educatori) di non smettere mai di indignarsi per una società che genera “poltronifici”, che demanda ogni sorta di responsabilità alle famiglie (spesso lasciandole sole), imprigionando i ragazzi nello stato sociale d’origine. Che fine ha fatto il sogno di migliorarsi rispetto ai propri padri? Che fine ha fatto quella provocazione sognata da don Milani: «Contesta il padre e la madre», che voleva dire: “contesta la società stantia, quello che ti è stato messo davanti e cerca di migliorarti attraverso lo studio e il lavoro”?

Qualcosa si è interrotto anche nelle politiche europee, che, a parole, utilizzano il termine “educazione” come una peculiarità della nostra società occidentale, ma, nei fatti, è qualcosa di diverso. Stando a uno studio della Confederazione europea dei sindacati (Ces), che ha rielaborato i dati del think tank “Bruegel”, l’Italia, per esempio, sarà costretta, di volta in volta, d’ora in poi, a un taglio della spesa pubblica annuo pari allo 0,61% (piano da 7 anni) del Pil o dell’1,15% (piano da 4 anni). Per non parlare degli effetti assai negativi prodotti sull’istruzione dalla Brexit inglese. Oggi il continente europeo non è ancora in grado di dare importanti risposte sull’istruzione in generale e sui suoi elementi correlati, come l’impossibilità di avere un alloggio decente (e accessibile in termini di costo) per i fuori sede in Università. Chi può si arrangia da solo, come la provincia di Bolzano, che – utilizzando efficacemente il programma Fse+ 2021-2027 – ha avviato un piano di 35 miliardi a favore degli istituti scolastici, divenendo un modello anche per i Paesi confinanti dell’Europa centrale, i quali attraversano un momento di enorme difficoltà coi loro giovani.

In conclusione, nell’ottima pubblicazione dell’Osservatorio Giovani dell’Istituto Toniolo (editore Il Mulino), accanto al dossier Digital Strategy della Ue, è emerso che i giovani italiani, francesi, inglesi e tedeschi ripongono alcune speranze per il futuro nell’IA, ritenendola fonte più di opportunità che di rischio. Giusta, però, la domanda contenuta nel testo: «Le nuove generazioni, a seguito dell’istruzione che ricevono, sono davvero messe nelle condizioni di interpretare i grandi cambiamenti in atto, IA compresa?». Una cosa ancora. Nel G7 dei ministri dell’Istruzione è stato detto, questa volta con chiarezza, che è rilevante investire nelle ragazze, perché questo produce, per la società attuale, una serie di effetti positivi.

Innanzitutto, c’è maggiore probabilità che se le madri frequentano la scuola, poi lo faranno anche i loro figli. Poi è molto più probabile che le pratiche della salute all’interno della famiglia si riflettano sull’intera comunità: le donne che hanno frequentato la scuola fanno vaccinare i figli, li nutrono meglio, consigliano loro attività idonee per il tempo libero e li invogliano ad acquistare libri. Il tema istruzione- educazione, in Europa, è comunque dinanzi a un quadro dinamico, che va seguito con tutta l’attenzione che merita.

Dorella Cianci


Avvenire, 22 agosto 2024

Tonio Rollo

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *